Il museo delle vittime del genocidio o, come chiamato ufficialmente oggi, Museo dell’occupazione e lotte per la libertà, sorge all’interno dell’edificio che è stato per cinquanta anni sede degli uffici del KGB e delle vecchie ma importanti e commemorative, nonché terribili e inquietanti prigioni, per questo chiamato più comunemente Museo del KGB. È sorto nel 1992 per volere del governo lituano dopo la proclamazione dello stato indipendente del 1990 e la caduta dell’Unione Sovietica. L’edificio è stato teatro anche dell’occupazione nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, divenendo per un breve periodo quartier generale della Gestapo, la polizia tedesca.
Storia dell’edificio e utilizzo negli anni
La storia dell’occupazione straniera della struttura però cominciò già nel 1889, quasi un secolo prima. In quel periodo fu prima sede amministrativa della Russia Zarista, poi punto militare tedesco durante la Grande Guerra e in seguito sede amministrativa del governo Polacco; queste occupazioni si conclusero appunto con il quartier generale della Gestapo durante la seconda guerra mondiale e il quartier generale della polizia segreta sovietica (KGB) dal 1944 al 1991. Storia di occupazione e sangue, una lotta per la libertà civile e nazionale durata quasi un secolo: questo rappresenta il Museo del Genocidio.
Le atrocità sovietiche e naziste
La Lituania fu uno dei paesi che più fu colpito dalle atrocità sovietiche, pagandone un caro prezzo di vite umane; veri e propri martiri uccisi e torturati per la loro volontà di libertà e indipendenza, civile e religiosa, contro un governo soppressore che non ha mai tenuto conto dei più semplici diritti umani, tanto che la nazione venne chiamata “territorio del sangue”. Ma le torture e persecuzioni non furono solo quelle sovietiche. Durante la Seconda Guerra Mondiale la persecuzione nazista nei confronti della popolazione ebraica si sviluppo principalmente qui a Vilnius; la città infatti, chiamata anche “Gerusalemme dell’Est”, contava una comunità ebraica di oltre 60 mila individui. Durante l’occupazione nazista e sovietica, questa comunità fu confinata nel centro della città, in quello che divenne il Ghetto di Vilnius, conosciuto ora come quartiere ebraico. La maggior parte dei deportati furono poi uccisi sotto esecuzione nei pressi di Paneriai, un colle poco distante da Vilnius: questo atroce evento dove morirono decine di migliaia di ebrei viene ricordato come il Massacro di Ponary. Tutt’oggi a Vilnius vivono solo poche migliaia di ebrei.
Cosa troviamo all’interno del museo
Ma torniamo al nostro Museo. Il Museo delle vittime del Genocidio è diviso in due sezioni: la prima parte si snoda attraverso due piani e racconta la storia della nazione lituana: lotta contro l’oppressione straniera, prima nazista e poi sovietica, attraverso filmati e documenti, reperti storici e testimonianze di partigianeria. Sono ricostruiti vari elementi di interesse storico come le stanze di comando e di sorveglianza; esposte varie divise di ufficiali e generali, armamentari, e veramente tante lettere e racconti, ufficiali e privati, che qui trovano spazio in un flusso di storie e memorie che ci trasportano in un purtroppo troppo recente passato, troppo buio per essere dimenticato.
Questo museo vuole essere il luogo della memoria, indelebile e purtroppo tristemente insostituibile, per fare in modo che ogni singolo individuo ne sia coinvolto in prima persona, contribuendo attraverso la propria memoria personale, alla costruzione di un avvenire che non dimentichi le atrocità passate e alla ricostruzione di un passato che non merita di essere dimenticato. Con questo monito il Ministro Lituano della Cultura e alcuni dei sopravvissuti alla prigionia e all’esilio, decisero di convertire l’edificio a luogo di memoria.
Le prigioni del KGB e le torture
La seconda parte è composta dalle prigioni. Si scende lungo il sotto piano e subito avvertiamo un senso di disagio e oppressione che presto si trasformerà in nausea; per lo meno, “nausea”, è la sensazione che ho provato maggiormente io, quando, scese quelle scale, mi ritrovai catapultato in un passato che sembrava così lontano ai miei occhi, ma purtroppo risultato essere così vicino alla lettura delle prime data scritte in una targa esplicativa di fianco alla prima cella: recitavano anni che andavano dal 1950 al 1980. Mio padre è nato nel 1960, post-guerra, ormai la vita in Europa era relativamente tranquilla, ma qui in Lituania, e ancora in alcuni territori sovietici, a poche ore di volo da dove viviamo, si consumavano certe atrocità. Scendiamo attraverso le scale e leggiamo in inglese nelle targhe a cosa servivano certe celle, di isolamento e di tortura: ricordo nitidamente uno spazio, che chiamare cella è un complimento, dove il prigioniero doveva stare in piedi perché non c’era altro spazio per altre posizioni, e al buio. Questa tortura psicologica veniva usata prima degli interrogatori: i prigionieri venivano rinchiusi per delle ore fino a che, spaesati e del tutto privi di forza e volontà propria. venivano interrogati come degli animaletti docili e indifesi. Le celle imbottite e per ciò completamente insonorizzate, davano un senso di oppressione al carcerato: una vera e propria tortura psicologica prima che fisica.
Troviamo anche ricostruzioni di come era il centro operativo militare e una cella ora adibita al ricordo dell’olocausto, con un enorme stella di David che si mostra davanti a noi appena ci passiamo accanto. In questo luogo fece visita Papa Francesco nel 2018, commemorando le vittime di un Genocidio che, anche se non ufficialmente riconosciuto, rappresenta, per la comunità lituana, il nome del ricordo dell’occupazione sovietica e delle sue vittime: circa 20 mila lituani persero la vita a causa delle purghe staliniane e dei campi in Siberia, e molti dei 250 mila lituani deportati non tornarono nelle proprie case.
Articolo di Simone Serri